Era abbastanza prevedibile che l’eliminazione dei propri account social, azione intrapresa da Bottega Veneta, producesse un’eco profonda all’interno degli ambienti della moda. Era altrettanto comprensibile che tale azione accuratamente studiata portasse i fashion insider a investigare quali benefici e quali danni possa generare l’utilizzo di una pagina social da parte di un brand. In una realtà in cui il dinamismo creativo e la frenesia dell’efficienza produttiva – volta a soddisfare il See Now – Buy Now – si contrappongono alla fermezza dei contenuti inanimati nei feed, la nota maison ha generato un cortocircuito tra il potere assoluto del lusso e la democrazia dei social. Daniel Lee – direttore creativo del marchio dal 2018 – non ha rilasciato dichiarazioni circa tale decisione, eppure questo gesto sembra essere l’azione conclusiva di una strategia ponderata in cui il rifiuto per il digitale è protagonista. Non è stata certamente una scelta fortuita quella di congegnare un fashion show SS21 low profile, con un numero limitato e selezionato di invitati, negando qualsiasi diretta in streaming dell’evento per salvaguardare l’intimità di un’ambientazione salon style. Nonostante la scelta di Bottega Veneta sia senza dubbio dettata da una strategia di marketing anticonformista e rivoluzionaria, ma senza dubbio cucita e confezionata ad hoc attorno alla vision del brand vicentino, esperienze virtuose di altre realtà del lusso ci mostrano quanto i social siano diventati centrali all’interno dei loro piani di comunicazione. È risaputo che moda e società camminino mano nella mano, ed è proprio per tale ragione che in anni recenti non solo la nascita dei social ha contribuito a modificare il modo di relazionarsi del fashion system, ma la sua stessa modalità per entrare in contatto con il cliente è stata assoggettata a diversi macro-trend globali imprescindibili. A differenza di Bottega Veneta, escludere la propria presenza on-line sarebbe un’azione alquanto azzardata per un direttore creativo come Alessandro Michele, che nella strategia di rilancio della maison fiorentina ha intravisto in Instagram un ottimo strumento di promozione. Del resto, analizzando e paragonando la adv campaign del Gucci contemporaneo al Gucci degli anni Novanta, è evidente quanto l’identità e la voce della casa di moda siano cambiate a favore di una maggiore “democratizzazione”, che certamente non corrisponde a una maggiore accessibilità dei prezzi d’acquisto. Nella genialità di Michele, in cui la tematica young & gernderless è posta in primo piano, i vecchi valori pubblicitari della direzione creativa di Tom Ford, che esprimono un forte maschilismo velato dietro al porno chic, appaiono troppo decontestualizzati e desueti per essere integrati nella realtà digitale del nuovo millennio. Discorso analogo vale per Prada, la cui comunicazione è cambiata nell’ultimo decennio come conseguenza dell’apertura di diversi canali digitali e l’inclusione delle nuove generazioni nel target di consumatori. Le campagne di Glen Luchford realizzate durante gli anni Novanta – oggi contenute nel libro Glen Luchford Prada 96-98, definito un nostalgico scorcio della semplicità di quel periodo – appaiono molto distanti a coloro che scrutano le campagne più recenti o le immagini che popolano il feed della pagina Instagram ufficiale. Del resto Prada non ha mai negato la propria natura fluida e, a distanza di oltre vent’anni, le differenze e i cambiamenti si sono riversati anche all’interno dei fashion show della maison. Citandone uno in particolare ovvero il Prada SS 2021 fashion show – il primo della neo-collaborazione tra Miuccia e Simons – è impossibile non notare l’ambientazione distopica, orwelliana e le modelle che avanzano circondate da schermi e telecamere, mentre riecheggiano negli spazi minimalisti le ugly prints della SS ’96. Nonostante la riproposizione di vecchi elementi stilistici, è lecito chiedersi se i designer volessero rimarcare quale ruolo, negli ultimi vent’anni, la tecnologia sia arrivata a occupare all’interno della società. Indubbiamente tra le domande rimaste aperte, e le sfide e le incertezze che il futuro della moda riserva, l’unica sicurezza reale è riconducibile alla legge della conservazione della massa di Lavoisier: «nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma». Per quanto negli ultimi anni i canali di comunicazione si siano evoluti e di conseguenza il modo stesso di relazionarsi al potenziale cliente sia mutato, l’unica costante all’interno della copy strategy delle imprese del lusso è il riferimento al modello XSP (Experience Selling Proposition). Attingendo al marketing esperienziale, tale modello viene impiegato per evidenziare i benefici di natura intangibile e simbolica che ogni marchio possiede intrinsecamente, e che con l’acquisto dei beni si trasmettono al cliente finale. Il lusso parla infatti un linguaggio astratto, privilegiando tra i vari mezzi espressivi la stampa periodica alla televisione, la quale è utilizzata esclusivamente per la pubblicità di beni accessibili come i profumi. Per superare la “barriera del rumore” delle migliaia di messaggi che bombardano continuamente il consumatore, i brand devono disporre di risorse sempre maggiori, per tale ragione l’incidenza dei costi di comunicazione sul fatturato e sulle spese complessive degli investimenti spesso superano il 10% del totale, cifra esorbitante se si considera che nel fast fashion si raggiunge appena il 3-4%. Poiché i social media, nella percezione comune, sono più simili al mezzo generalista della televisione che alla stampa, si rivelano uno strumento perfetto per aumentare la brand image e la brand awareness, a costi decisamente più contenuti rispetto a quelli dei canali tradizionali.
Sicuramente, tra i motivi che hanno incentivato le case di moda a un’adozione – seppur tardiva – di questi strumenti, c’è l’essere per le nuove generazioni il mezzo più semplice e intuitivo per conoscerne i contenuti online, soprattutto attraverso materiali video. Questi si rivelano però una lama a doppio taglio: se appaiono troppo promozionali e le informazioni sovrastano il linguaggio ludico e astratto dei contenuti, i rischi principali sono la mancata conversione delle visualizzazioni in vendite e una progressiva erosione della willingness to buy dei potenziali clienti. È altrettanto vero che, una delle caratteristiche fondamentali dei social, è quella di mettere in contatto diretto il consumatore e le maison, riducendo conseguentemente la distanza psicologica tra il consumatore stesso e le label. Poiché tale distanza rappresenta uno dei fattori che ha sempre caratterizzato il lusso nella sua accezione tradizionale, la conseguenza è l’elevato rischio che la percezione di prestigio dell’azienda stessa si indebolisca e si comprometta quel dominio di astrazione che da sempre compone la sua natura pubblicitaria. Il ritorno alle origini di Bottega Veneta, che ha celato nuovamente la propria identità dietro il suo iconico intrecciato – simbolo del lusso discreto – ha appena dato origine a uno scisma comunicativo. All’interno di tale scenario si prospetta che, mentre alcuni brand come Guccie Prada continueranno a investire in iniziative come il gaming e ampliare la propria presenza sui social network – colonne portanti della loro new image – molti altri si troveranno a riconsiderare la loro posizione in merito. Il possesso di più canali social per un marchio emergente o che si rivolge a un target giovanile risulta ormai essere una scelta quasi obbligata, ma per coloro che vorranno mantenere una posizione più conservatrice ed esclusiva verso il proprio pubblico, il social risulterà realmente essere uno strumento utile? Del resto, se il lusso viene definito come «la necessità che inizia dove la necessità finisce», che esigenza ha il lusso stesso di presidiare il maggior numero di touchpoint comuni e popolari per attirare i propri clienti? Per quanto sia facile esprimere opinioni e teorie, in un panorama così complesso come il lusso contemporaneo, le azioni di predire e preannunciare si rivelano spesso vane, dunque non ci resta che attendere e vedere se tale iniziativa di Bottega Veneta si rivelerà un effetto domino o un semplice fuoco di paglia.