La società ha da sempre concepito il lusso come qualcosa di estremamente inaccessibile, superficiale e relegato alla pratica del puro esibizionismo. A tal proposito, indagare l’etimologia che si cela dietro la parola “lusso” può essere un’attività avvincente per comprenderne a pieno l’origine e il significato. Per quanto ci si sforzi di trovare al vocabolo un’accezione positiva, l’associazione ereditata dalla severa tradizione latina non è delle più lusinghiere. Nonostante ciò, è intrigante pensare che in luxus, ossia il fasto e l’eccesso, sia contenuta la parola lux, ovvero luce. Consapevole che sia etimologicamente scorretto, preferisco soffermarmi su quest’ultima radice, esaminando gli aspetti positivi nell’attività e nei valori che il lusso manifesta all’interno della società contemporanea. L’evoluzione negli ultimi cento anni di questo comparto della moda – sia in termini prettamente economici che di stile – ha fatto emergere importanti considerazioni sul ruolo che a oggi è arrivato a raggiungere all’interno di una crescente complessità globale. Assecondando le regole di mercato riportate nel manuale di Kapferer e Bastien “The Luxury Strategy. Break the Rules of Marketing to Build Luxury Brands” e implementando costanti strategie di pricing basate sul valore percepito – nonostante i ricorrenti periodi di crisi – il settore dei personal luxury goods è passato da un fatturato di 87 miliardi di euro nel 1995 a 300 miliardi nel 2020, ponendosi recentemente nella società del nuovo millennio come inconsueto linguaggio collettivo delle nuove generazioni. Mantenendo invariata la «politica di vendita di un prezzo e non un prodotto» e alimentando con costanza la propria brand awareness, molti dei marchi che oggi dominano il mercato hanno intrapreso uno stravolgimento interno che ha favorito l’avvicinamento di new customer, sempre più sfuggenti alle vecchie norme del marketing tradizionale. In questo contesto appare scontato ribadire che, in una nuova era in cui la pandemia mondiale ha accelerato il dinamismo del cambiamento, percorrere strade già collaudate, per quanto possa sembrare la strategia più semplice, sicuramente non è la più affidabile per il successo. Per tale ragione, le vecchie quattro P (Product, Price, Place, Promotion) del Direct to Consumer Marketing hanno ceduto il posto ad altre, più in linea con le crescenti esigenze del mercato che vede protagonisti young consumer. In una rappresentazione gerarchica piramidale del marketing mix corrente, mentre il purpose e il positioning del brand si situano alla base in quanto colonne portanti dell’impresa, le attività di partnership e personalization si collocano all’apice, dove la seconda è centrale per creare prodotti ed esperienze su misura sempre più ricercate dai giovani acquirenti. Altrettanto importante è la collaborazione, azione grazie alla quale i brand complementari si applicano nella realizzazione di creazioni uniche e disponibili sul mercato per un periodo limitato di tempo, fondendo differenti heritage aziendali col fine di promuovere una visione sempre più fresca e accattivante della moda. Nella frenesia contemporanea di una società che alimenta la costante ricerca di stimoli, i vecchi dogmi appartengono a una stagione ormai superata, dove le parole “ostentazione” e “appartenenza” sono state sostituite dai vocaboli “identità” e “libertà”. In quest’ottica di rinnovamento, il lusso si sta ponendo come punto di riferimento non solo per merito della creatività di coloro che hanno trasformato la propria passione in un lavoro, ma soprattutto grazie al supporto che le imprese stanno offrendo impegnandosi nel sociale. Se cento anni fa Coco Chanel, collaudando la praticità dell’abbigliamento femminile, ha sovvertito un consolidato retaggio culturale ottocentesco di pura ostentazione generando una nuova visione di eleganza e lusso, oggi l’industria della moda, per merito del potere acquisito negli anni, combatte cause apportando una visione rivoluzionaria attraverso messaggi di accettazione e inclusione. Che tale metamorfosi sia generata dalla necessità di avvicinarsi ai valori delle nuove generazioni è una spiegazione plausibile, tanto quanto il fatto che moda e società siano destinate a evolversi simultaneamente, esercitando un’azione paragonabile ai neuroni specchio che risiedono all’interno del cervello.
Se nel lontano 2000 la maison Valentino promuoveva all’interno della FW adv campaign di Steven Meisel un’immagine boriosa e decadente del brand, è indiscutibile come ventuno anni dopo l’approccio sia cambiato, favorendo la produzione di immagini in cui l’ambiguità della bellezza del modello Michael Bailey-Gates è l’apertura di un varco per la libertà e il sovvertimento di valori binari. Per quanto ancora il lusso venga spesso decodificato come un mondo conservatore, è palese l’impegno dedicato alla manovra di riscrittura di codici sorpassati affinché – senza minare l’essenza del brand – sia possibile comunicare con una generazione sempre più coinvolta nella lotta dell’identità di genere e nella sostenibilità. Se la scelta effettuata dalla direzione artistica di Piccioli apparirà scioccante ai più tradizionalisti, ancora più sconcertante sarà venire a conoscenza della realizzazione di uno show all’interno del Berghain – storico nightclub berlinese protagonista delle maggiori serate techno e di musica elettronica sperimentale ed eclettica – da parte di Daniel Lee, direttore creativo di Bottega Veneta. Essendo il brand vicentino pura espressione di classe e discrezione, appare ossimorico pensare all’accostamento del suo nome a quello di un luogo in cui si consumano eventi rinomati per un’estrema libertà espressiva e sessuale. Per quanto le campagne pubblicitarie recenti della maison non riproducano scenari underground ma rispettino i canoni di semplicità e compostezza (o moralità), l’associazione tra edonismo, segretezza e tradizione rappresenta la nuova vision di Bottega Veneta che, senza compromettere il proprio heritage stilistico, ha conquistato l’attenzione dei Millennials e della Gen Z, facendo emergere un’identità caratterizzata da una versatilità tanto borghese quanto anticonformista. Il processo di democratizzazione operato da diverse imprese del settore si è manifestato prendendo vita sotto differenti forme, tra cui il masstige che, mostrando la natura ambivalente del fenomeno, ha esposto sia la faccia tanto prestigiosa ed elitaria, sia quella accessibile e ordinaria che il lusso può avere. Attraverso tali azioni di co-branding, case di moda come Giambattista Valli e Moschino hanno rafforzato la propria notorietà verso fette di mercato che includono le nuove generazioni, evitando allo stesso tempo di danneggiare la propria immagine e il proprio posizionamento, grazie all’esclusività e alla limitatezza temporale delle collezioni. Esaminando diversi casi, è possibile concludere che il lusso odierno stia percorrendo simultaneamente due percorsi adiacenti in cui il custodire clienti storici fidelizzati sia una priorità tanto quanto il coinvolgimento del mondo young all’interno della realtà artificiosa, appositamente creata per ridurne la distanza con l’autorità della label. Proprio per tale ragione bisogna riconoscere che il lusso, nell’autostrada del futuro, abbia optato per un incontro a metà via con i new customer, rivelando sembianze eclettiche e poliedriche che si discostano dall’immagine prettamente rigida ed elitaria che da sempre gli viene affibbiata. Mediante la nascita di nuove iniziative di natura sociale, tanto a sostegno dei giovani quanto a sostegno dei più deboli – come ci mostrano le varie esperienze del gruppo Kering – il lusso del ventiduesimo secolo sta facendo sorgere la propria “lux”, rimasta velata per decine di anni, favorendo il tramonto di una concezione sorpassata lontana anni luce dal presente attuale e dal futuro più distante.