Per quanto la frase «dalla strada alla passerella» possa apparire abbastanza inattesa e priva di reale significato, la storia del costume e della moda all’interno della sua interminabile e prolissa narrativa smentisce coloro che considerano inconsistente tale mito.
Dal principio dell’età postmoderna a oggi, all’interno dell’insorgente società dei consumi, gli esempi di tale avvenimento sono diversi e molto spesso si rivelano impercettibili alla cecità del consumatore.
In merito ai vari casi, è proprio facendo riferimento all’intreccio dell’armatura a saia del denim, che individuiamo uno dei capi simbolici dell’abbigliamento di massa: il jeans.
Questo indumento, il cui ciclo di vita lo qualifica come un prodotto iconico e pressoché intramontabile, è divenuto un caso esemplare ed esplicativo del fenomeno definito “bubble-up”.
Investigando l’etimologia e il significato di tale verbo frasale in diversi dizionari, le principali definizioni che emergono sono:
«To rise to the surface or become obvious».
«Of a liquid, to emerge from something, usually from under a surface, in a bubblingmanner».
«To become wealthy at a rapid rate/get rich quick».
È innegabile come la semantica e l’azione metaforica di tale parola si prestino in modo ottimale per definire in modo figurativo ciò che il Fashion Marketing intende evocare.
Entrando nel merito della questione, cosa rappresenta concretamente il bubble-up?
Innanzitutto, tale processo coinvolge in un primo stadio la connotazione marginale e prettamente popolare dell’indumento in questione, deputata successivamente a subire un processo di ascensione e inglobamento nell’eucaristia delle tendenze di moda e lusso, che ne garantisce una nuova sacralità e inviolabilità.
È dunque la moda volgare, intesa come moda del volgo e delle subculture urbane, che estrapolata dal proprio contesto viene rinchiusa nella torre d’avorio delle grandi maison, in cui è caricata di nuovi accostamenti simbolici affinché diventi nuova proprietà intellettuale del lusso.
Da ciò è possibile desumere che la quotidianità nei contesti urbani, all’interno dei feudi contemporanei della moda, sia una forza anticipatrice e una fonte ispiratrice primaria nella ricerca stilistica e nella realizzazione di artefatti destinati a sezioni di fascia alta del mercato.
Un articolo del Sole 24 Ore risalente al 2018 – intitolato C’era una volta il jeans “da strada” La nuova era del denim è nel lusso – riporta come il denim, introdotto all’interno di molte collezioni prêt-à-porter, abbia riacquistato una solida reputazione dettata dal fatto che «a trainare il mercato è il sempre più marcato orientamento casual dell’abbigliamento».
Con ciò, intendo sottolineare come il tessuto di umili origini, in quanto a inizio secolo indossato esclusivamente dalla forza lavoro operaia, sia stato inserito all’interno di un circolo economico virtuoso, che secondo il profilo di alcune stime a valore retail «nel 2021 toccherà la cifra record di 129,8 miliardi di dollari, 30 miliardi in più rispetto al valore del mercato nel 2016».
Ancor prima che emergessero studi di marketing connessi al fenomeno del bubble-up – nozione che si contrappone al trickle-down, ovvero il processo inverso che coinvolge l’emulazione sociale delle alte sfere della società da parte dei subordinati – la trasversalità dei fashion studies affondò le proprie radici nei secoli XIX e XX, periodo in cui la crescente complessità della società interessò vari ambiti interdisciplinari tra cui la sociologia e la filosofia.
Tra le varie teorie e figure che assunsero rilievo vi fu indubbiamente Georg Simmel, che nel 1895 pubblicò l’opera saggistica La Moda.
Il sociologo tedesco – che definì la moda come un «sistema di coesione sociale» – sostenne la natura dicotomica che questa occultava, in cui conformità e differenziazione si concretizzano in due comportamenti umani ambivalenti: l’impulso di imitare il prossimo e il comportamento individualistico che presume la necessità di distinguersi.
In tale dibattito, ripercorrendo vari cenni filosofici, emerge la nota teoria marxiana che recita: «la classe in possesso dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale».
Quanto enunciato si può riassumere nel concetto per cui le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti, indipendentemente che queste possano avere origine popolare e al popolo stesso siano state sottratte.
Nel saggio Sottocultura, l’autore Dick Hebdige considera tale teoria fondamentale per sviluppare ciò che Gramsci designò come l’egemonia culturale, all’interno di quella che Vološinov definiva, in contesto linguistico, comunità segnica e di consumatori di miti.
L’intellettuale russo, asserendo alla mancanza di coincidenza tra la classe e la stessa comunità segnica, evidenziò come estrazioni sociali differenti, esprimendosi nella stessa lingua, combattano per il possesso del segno, il cui controllo si estende anche alle aree più mondane della vita quotidiana, tra cui la moda.
Circa cento anni dopo è possibile rilevare come tali intuizioni non siano affatto errate o arcaiche, ma perdurino nella società postmoderna che, subendo mutamenti radicali, è stata metaforizzata liquida dal sociologo Bauman, il quale nella sua lungimiranza intravide l’imminente perdita di confini e riferimenti sociali.
Pertanto tali cambiamenti interni alla società, profetizzati dall’accademico polacco, si sono prevedibilmente riflessi sulle tendenze le quali, già soli quindici anni dopo l’apparizione del New Look di Dior nel 1947, si ribellarono al suo anacronismo a favore di forme e volumi che garantissero sia maggiore libertà al corpo – ciò che Benjamin definisce involucro, ovvero il supporto cadaverico dell’abito – sia praticità di movimento all’interno degli emergenti contesti urbani.
Esaminando la situazione attuale: è pressoché innegabile che nell’ultimo decennio la trasformazione del settore fashion luxury sia stata necessaria per assecondare i gusti dei nuovi target di riferimento, ovvero le generazioni Y e Z. È altrettanto evidente che il lusso abbia inaspettatamente cambiato il proprio linguaggio verbale e visivo, inserendo espressioni slang all’interno del proprio lessico un po’ ancien régime e un po’ desueto.
Molti dei brand appartenenti ai colossi mondiali del lusso LVMH e Kering hanno compiuto tale stravolgimento dei propri canoni estetici – in primis Balenciaga – parallelamente alla nascita e allo sviluppo di nuovi brand che hanno scorto nelle tendenze urban-streetwear il punto focale della propria identità.
Tra gli innumerevoli casi, l’ingresso nel mondo della moda di lusso di Gosha Rubchinskiy è stato eclatante: nel 2008 ha fondato il brand omonimo, portavoce delle realtà periferiche e delle subculture che si sono insidiate nella Russia post-sovietica. In diversi anni di collaborazione con l’attuale art director di Balenciaga – Demna Gvasalia – e la stylist Lotta Volkova, dalle passerelle parigine Gosha si è cimentato ad alimentare l’immaginario collettivo dell’Europa occidentale, narrando la realtà delle nuove generazioni della sua terra, celata tra le immense strutture brutaliste dei sobborghi residenziali.
Dando vita a diverse collaborazioni streetwear – in cui i capi esibivano un’esuberante logomania cirillica – Gosha ha dato nuovamente risalto a tessuti sintetici, cromie fosforescenti e vestibilità oversize, tornate in voga dopo diversi decenni.
Spostando il focus oltreoceano – precisamente nella capitale californiana – nel 2013 il giovane designer James Flemons, sotto l’eponimo di Phlemuns, ha catturato immediatamente l’attenzione della fashion scene losangelina concependo la sua prima collezione ispirata all’abbigliamento delle icone old school R&B. Phlemuns, avido archivista di origini afroamericane, al lancio della sua quinta collezione – che include la seconda linea Phlemuns NonBasics – è stato definito da SSENSE il primo tra i designer emergenti a promuovere il L.A.’s current fashion renaissance.
È fuori discussione che il suo background culturale abbia indubbiamente influito sui codici estetici del brand. Come lo è il fatto che i suoi capi androgini, decisamente funzionali, siano permeati di nostalgia verso quell’ambiente musicale che, qualificandosi come il principale mezzo di espressione della cultura afroamericana del ghetto, ha dominato l’inizio del nuovo millennio.
In merito al proprio target, il creatore afferma di non averne mai delimitato alcuno, promulgando di voler favorire un dialogo tra storia e culture attraverso un bridge culturale che faciliti la realizzazione di un design senza tempo, che possa perdurare negli anni a venire.
Ancora più recente, invece, è l’esperienza dell’espatriato bulgaro Kiko Kostadinov, talento forgiato della Central Saint Martins, che nel 2016 ha debuttato nel panorama londinese con la prima collezione SS Ready-to-wear, fortemente ispirata alle uniformi e all’abbigliamento operaio.
Se per un verso la sua produzione, mossa da un forte concettualismo, si traduce nell’uso estremizzato di mix and matchcon stimolanti sovrapposizioni e radiosi contrasti, dall’altro assume meticolosamente l’impegno di far emergere l’eleganza e lo slancio della silhouette.
Nel 2017, in seguito all’esperienza come creatore direttivo della capsule line con il brand Mackintosh 0001, Kiko ha ravvisato nel movimento artistico dell’Arte Povera italiana una fonte di ispirazione vitale, esibendo come nella propria narrativa si mantenga una certa fedeltà e propensione verso il minimalismo e l’Anti-form, con alcune sfumature Post-human.
In conclusione, in un mercato saturo come quello della moda dove costante innovazione e originalità – per quanto possano apparire parole scontate – restano imprescindibili, molte esperienze di brand emergenti – pur avendo avuto una eco più flebile all’interno del fashion business – hanno a ogni modo iniziato a presidiare nicchie di mercato rivolte a consumatori sempre più critici e preparati.
Ciò che la moda simboleggia in epoca postmoderna si può definire come un sistema composto da linee rette incidenti, nel cui punto comune vi sono come riferimento l’urbs, la strada e l’appropriazione delle subculture. Nella somma algebrica moda-costume e società, in cui una componente si rivela fonte di sostentamento dell’altra, il loro vincolante legame millenario consacra il peculiare carattere ibrido del settore, composto tanto dall’industria manifatturiera quanto, e soprattutto, quella culturale.